martedì 27 ottobre 2009


Capitolo Trecentoventisettesimo. Il tempo viene per tutti

Nonostante possa scegliere tra due balconi, la sigaretta serale la consumo sempre in quello di servizio, più grande, che si affaccia sul balcone interno.
Raramente, però, opto per il balcone esterno, così piccolo da contenermi a fatica, ma che offre una discreta vista sulla collina e sulla piazza antistante.

Da questo secondo piccolo balcone riesco a scorgere anche Wilma, che sonnecchia non troppo tranquilla, legata rigidamente alla sua catena.
La vedo distante, come la percepisco in questi ultimi giorni.
Mi sembra quasi di scorgere le macchine di ruggine che ne intaccano il telaio, il freno leggermente consumato, il parafanghi tristemente ciondolante dopo l'ultima bravata del violentatore di turno, il cestino ormai da buttare.

Penso alle cavalcate per l'Angusta Taurinorum, gli slalom tra traffico e smog, le luci lampeggianti nella penombra notturna.
Sento nelle orecchie i suoi rumori: quelli che una volta erano grida festose di incoraggiamento, inciti a non fermarsi mai, a proseguire senza sosta, e che ora si sono trasformati in lamenti di stanchezza, moniti a rallentare, ad implorare, a tratti, brevi pause per un necessario riposo.
Percepisco tra le mani il fremere dei manubri, prima cavallo imbizzarrito da tenere a freno, ora tremito di vecchio, che non riesce a non sussultare davanti agli orrori della vita.

Penso a Wilma, la bici fedele che è riuscita a guadagnarsi un nome, le sento vecchia, sento il respiro pesante del tisico che se ne sta andando. Ogni mattina quando scendo temo di non trovarla più. Immagino che come un animale devoto e discreto sia andata a spirare lontano, ad evitarmi il dolore nel vederla incapace di svolgere il proprio lavoro: inutile e perciò senza vita.

Ma forse penso solo a mio padre, già vecchio, e a me, che sono da fin troppo tempo donna.

martedì 20 ottobre 2009


Capitolo Trecentoventiseiesimo. (L)Ode al Formaggino Mio

In tutta la mia infanzia non ho mai mangiato del cibo preconfezionato.
Mia madre, sino a che ne è stata in grado, ha sempre cucinato tutto il cucinabile: passate di pomodoro, marmellate, sughi, pasta, pane, merendine... Riuscì persino a produrre yogurt, formaggio e Nutella.
Le materie prime le fornivano l'orto, il frutteto ed i piccoli animali da fattoria: galline, polli, conigli...
Compravamo solo la carne bovina, suina ed il pesce. Questo unicamente perché non le riusci mai di escogitare uno stratagemma per conservare una vacca intera, dopo averla macellata, né di allevare i tonni nella vasca da bagno. Ma dubito che prima della mia nascita non ci abbia mai provato.

Nonostante tutto questo, mangiare da mia zia assieme a mio cugino rappresentava sempre una festa.
Lì, infatti, si consumava il Formaggino Mio - che per me, poi, la parola Formaggino Mio indichi un qualsiasi formaggio molle non identificabile, dal BelPaese al Tigre sino al Susannatuttapannapitumpitumpa, non è che un dettaglio. Lì, appunto, si consumava il Formaggino Mio, che da casa mia era bandito, come le Sottilette, la carne in scatola ed il sesso prematrimoniale.

Ricordo ancora quando mia zia lo estraeva dal frigo e mi chiedeva se ne volessi. Ne mangiavo tre o quattro, sotto lo sguardo allibito di mio cugino, che doveva sorbirselo a forza, disciolto in qualsivoglia minestra come unico misero apporto di calcio.
Ricordo ancora come lo sbranavo, senza capirne il sapore, cosi diverso da quelli a cui ero abituata. Lo ingurgitavo senza che neppure mi piacesse particolarmente, per il solo gusto della novità. Un po' come feci anni dopo con le Sottilette, la carne in scatola ed il sesso prematrimoniale.

Terminata l'epoca dei pasti da mia zia, non ne mangiai più, ma ne ricordo ancora quel gusto particolare.
Non ne mangiai più, sino ad oggi, quando trascinata dalla nostalgia, ne ho acquistato una confezione.

E' rassicurante sapere che, per quanti progressi faccia la Scienza dei Materiali, il Formaggino Mio mantiene ancora il sapore che aveva nei miei ricordi. Quel sapore che con gli anni ho imparato a decodificare: elastomero di dubbia qualità.

domenica 18 ottobre 2009


Capitolo Trecentoventicinquesimo. Le parole che non ti ho detto

- Nella Pasta con le Sarde le sarde sono il pesce?
- No. Abbiamo una convenzione con l'Anonima Sequestri, che ogni mese ci invia un paio di ragazze isolane. Le segreghiamo in cantina e dopo averle seviziate le facciamo a pezzi, poi ci condiamo la pasta. Un misto tra la tradizione popolare e la nouvelle cuisine, un sapore da provare.

- Quanto misura il diametro della salsiccia?
- Ha presente il terzo nano che compare in Biancaneve e i Sette Nani? Il diametro della nostra salsiccia è esattamente 1,618 volte più grande del suo pene. Le dico esattamente perché essa deve superare un rigido controllo di qualità tenuto dall'attore in persona. Ovviamente parlo del film di Luca Damiano del 1995, non del lungometraggio animato della Disney.

- Che belle queste candelabri sui tavoli. A proposito: lei conosce il gioco della candela?
- E' quello un cui ci sono un uomo ed una donna nudi, o anche solo con i genitali scoperti? Mi faccia ricordare bene le regole... lei si posiziona sopra di lui per essere penetrata ed inizia a muoversi nel modo in cui più le aggrada, vero? Mi scusi, mi sono confusa: quello è lo smorzacandela. Qual è il gioco della candela?


Pensare che queste domande idiote sono solo la punta dell'iceberg di quello che un cameriere deve sentirsi chiedere ad ogni servizio...

venerdì 16 ottobre 2009


Capitolo Trecentoventiquattresimo. 16 10 2004 - 16 10 2009

Cinque anni: 1826 giorni.
Circa il 20% della mia vita raccontata in 322 post, con qualche errore di calcolo qua e là.
Un post ogni sei giorni, se proprio si vuol fare della matematica spiccia.

Poco più di una volta alla settimana mi sono seduta davanti ad un monitor, con una testiera sotto le dita, ed ho scritto. Ho vomitato parole dopo aver fatto indigestione di emozioni, dopo essermi abbuffata di gente, dopo aver riempito gli occhi di immagini e la mente di pensieri.

Ho vissuto mille ed una storia e ne ho narrate alcune, sonorizzandole per me in un aritmico ticchettio, per voi col suono delle vostre menti, delle vostre voci.
Anche se siete pochi: meno delle paradisiache vergini, meno dei gatti in fila, meno dei lettori del Manzoni.

Nel tempo ho mutato lo stile ed ho rimpiazzato il filtro che decide quello che viene raccontato, quello che non lo può essere, quello che aspetta solo di venire pubblicato: sono cambiata io.

Non credevo sarebbe durato tanto: 322 post, il 20% della mia vita, 1826 giorni, cinque anni.

mercoledì 14 ottobre 2009


Capitolo Trecentoventitreesimo. Il piccione superstizioso


Si dice che se si vuole vedere arrivare una persona, ci si debba assentare dalla stanza. Oppure chiamarla, con il pensiero e qualche altro piccolo gesto che già una volta aveva funzionato.
Per esempio, quel giorno ti legasti la scarpa ed ella arrivò. In seguito te la rilegasti altre cento volte, tutte senza risultato, ma in quell'occasione, certamente, indovinasti le mosse giuste. Perché la magia funzioni di nuovo sai che dovrai riprovare per altre cento volte, ed anche più, tatuandoti nella mente la successione esatta dei movimenti. Lo sai e lo farai.

Ogni volta, mentre ti annoderai quei lacci, ti convincerai che ella stia arrivando, che varcherà presto la porta, che attraverserà tra poco la via, che aprirà magicamente il portone, che si materializzerà veloce davanti a te che la stai desiderando, per la sola forza che il tuo stesso desiderio contiene.

Non c'è frustrazione nel tuo continuo provare, nelle tue disattese speranze. La caparbietà nello struggimento ti consente di non vacillare. Provi delusione solo quanto il sogno diviene reale e il grido che la chiamava si fa sorpresa.

Le parole che mai pronunciasti nemmeno questa volta sarebbero state dette.

lunedì 12 ottobre 2009


Capitolo Trecentoventiduesimo. Quella volta che attraversai Genova


C'è stato un periodo della mia vita in cui attraversavo la Liguria per vezzo, non affezionandomi a nessun luogo, se non a quella roulotte ad Albenga e a quell'angolo di spiaggia, alla foce e al molo, dove sventravamo piccoli pesci per ridicoli fritti.

Una volta, in questi spostamenti, mi trovai con l'amica G. a ponente di Genova, in un disperato tentativo di raggiungere La Spezia. Condividevamo una sveglia all'alba e un buon centinaio di chilometri, qualcuno camminato, molti di più trasportate.
Lì ci caricò un ragazzo ligure, studiava fisica in città. Doveva avere pochi anni in più di me, ma mi sembrò molto più grande. Si chiamava forse Alberto, o Andrea, aveva capelli castani, occhi chiari e uno sguardo sicuro. Ci caricò senza fare domande e si mise a parlare.
Mentre entravamo nell'autostrada che buca Genova ci racconto di sé, dei suoi studi, di quanto fosse bello finire lezione e poi fare il bagno, asciugarsi a malapena sotto un sole che moriva in una spiaggia pietrosa e finalmente deserta.
Poi ci chiese di noi, se eravamo mai state a Genova.
G. era insolitamente silenziosa e toccò a me rispondere. Parlai di quella volta che visitai l'acquario e che mi persi nell'intrico di viuzze per ritrovarmi in stazione.
Mi chiese cosa stavo cercando. Nulla. Ribatté che il nulla non esisteva. Dissi che cercavo Via del Campo, volevo vedere se il paradiso fosse ancora al primo piano.
Mentivo, era chiaro. Non cercavo nulla, sul serio.
Diventò torvo per un attimo, si chiese forse se mi stessi burlando di lui. Poi si distese ed inizio a cantare. Cantò una strofa di Via del Campo con una voce così triste che mi si strinse il cuore. Glielo dissi.
Mi chiese quale fosse la mia preferita e mi accennò Inverno. Poi, ne cantò un'altra e gli chiesi se fosse la sua preferita. Non lo era. Ne citò altre, ed io mi accodai a lui: una voce sussurrata e stonata.

Attraversavamo Genova a passo d'uomo, in una coda che credevo non si sarebbe esaurita mai, che desideravo non si esaurisse mai.

Mi chiese se avessi visto la chitarra di De André. Dissi di no.

Poco dopo lasciammo l'autostrada. Fermò la macchina, indicò una via. Era Via del Campo. Mi diede le indicazioni per raggiungere il negozio dove era esposta la chitarra: Così questa volta non ti perderai, aggiunse.
Io e G. scendemmo.

Fu un breve pellegrinaggio ateo e atono, fu il calore di un momento, poi di nuovo verso il vento.

sabato 10 ottobre 2009


Capitolo Trecentoventunesimo. Quello che le donne non dicono


Servirebbe un'unità di misura per capire quando e quanto una donna è alla frutta. Una scala Mercalli della propria indecenza come essere umano. Un piccolo vademecum.

  • Guardare trasecolante Sex and the City: 1.

  • Mangiare cioccolato alle undici di sera davanti al pc: 2.

Da lì a salire.

  • Provare tutto l'armadio prima di uscire: 9.

  • Praticare lo shopping compulsivo come sostituto della fluoxetina: 10.

  • Uscire per comprare dei collant e tornare con in busta un vestito da sera: 11.

Sino alla dodicesima posizione.

  • Essere disposte a pagare un uomo che faccia solo le coccole: 12.

Perché più in basso di cosi non si può cadere.
Almeno spero.

venerdì 9 ottobre 2009


Capitolo Trecentoventesimo. Storie da ristorante, puntata terza


- Vorrei un crudo e melone.
- ...
- Ma il melone è quello invernale?
- ...
- Sa io vorrei evitare l'acquisto sconsiderato di frutta non di stagione. I problemi climatici, l'inquinamento globale, gli orsi bianchi, i tumori infantili...
- Le assicuro che il nostro melone soddisfa i suoi standard: appartiene già alla nuova collezione autunno\inverno, quella col pelo.

Ma PTWG, perché hai chiuso? Io ti racconto tutte le storie da ristorante che vuoi, ma... ma sì alla fine fa un po' quello che ti senti, sappi che mi mancherai -oppure dimmi che è solo una strategia pubblicitaria.

lunedì 5 ottobre 2009


Capitolo Trecentodiciannovesimo. Affinità


DissuasoreTac, tac, tac

La mia mano, a peso morto, colpisce i dissuasori.
E' una vecchia abitudine di quando ero bambina, come camminare senza calpestare il bordo delle piastrelle o poggiando il piede solo su quelle con un certo colore, una data forma; come seguire con l'occhio il ciglio della strada, dal finestrino dell'auto o a tra il tartagliare del treno.
Li colpisco senza contarli, senza pensarci: solo il contatto col metallo e quel rumore ritmato nell'aria, con la mano a coppa sulla cima tonda, oppure a paletta, sull'asta.
Un colpo che è quasi una carezza.

Tic, tac, tic, tac, tic

Di fronte a me una bambina, che saltella in direzione contraria. La sua mano, a peso morto, colpisce i dissuasori.
Una mano piccola che si infrange dopo l'onda del passo, producendo un suono lieve, ma non per questo meno deciso.
Per un attimo non è più una bambina, ma un suono; non e' più un suono, ma un gesto; non è più un gesto, ma una compagna di giochi.

Tic, tic, tac, tic, tic, tac

Rallento, mi guarda: per un attimo vede un suono, un gesto, una compagna alle prese con lo stesso gioco. Poi il passo di nuovo veloce, tra un dissuasore e l'altro, poi lo sguardo di nuovo fisso verso la strada.

Tic, tic, tac, tic, tic, tac, tac

La madre la prende brusca per mano: non può più giocare. Mi osserva con l'occhio livido dell'invidia che i bambini riservano ai grandi. La guardo con l'occhio tenero che i grandi riservano a loro stessi quando vorrebbero essere bambini.

Tac, tac

Smetto anche io: dopo che si gioca in compagnia non è più bello giocare da soli.