domenica 29 marzo 2009


Capitolo Duecentonovantacinquesimo. Catarsi


C'è chi legge il futuro nei fondi del té, chi, come me, nel fondo del lavandino, quando l'acqua scura dei piatti è scivolata via, rapida e volgare.

Guardo il fondo e vedo nocciole e pomodoro, farina sui bordi e residui di pasta, salvia e bucce di mele, cose che di per sé non dicono nulla, perché la magia non sta nella loro composizione, ma nel rito necessario a crearla.

C'è chi per riordinare i pensieri fa yoga, chi usa lo sforzo, annegandosi nelle patatine, chi prega ed aspetta un segno, chi preferisce farseli riordinare da un professionista.
Io cucino.

Prendo il disordine che ho dentro e lo proietto sul cibo, che sistemo e trasformo, una magia che tramuta problemi complessi in piatti semplici.

Non so cosa voglio dalla vita? Trito la carne, affetto le verdure e metto su il ragù, mescolo farina e uova, tiro la pasta.
Non so cosa fare della vita? Guardo il burro sciogliersi, penso, unisco zucchero e farina, ancora uova. Impasto, sfogo la violenza che mi autoinfliggerei altrimenti. Tiro di nuovo la pasta, do ad essa una forma, più forme: più cibi per più sfaccettature dello stesso problema.

Poi mangio, un rito antico: introietto tutto, in una nuova forma. E quando lavo i piatti, pulisco la cucina e guardo sul fondo del lavandino quello che vedo è il futuro, più pulito anch'esso.

In fondo mangiare è il modo più semplice che abbiamo per prenderci cura di noi stessi.