domenica 31 ottobre 2004


Castelli di Rabbia, Alessandro Baricco


Un piccolo angolo nell'Europa dell'800, un crocevia di storie, un luogo dove "si viveva allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l'impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà", in una parola, Quinnipak.
Quinnipak e i suoi abitanti.

Il signor Rail ed i suoi lunghi, misteriosi viaggi. Il signor Rail e la sua giacca da camera, fermo, in bilico tra ricordi e sogni, a scorrere con gli occhi le coste dei libri.

Il signor Rail e Jun, signora Rail, e la promessa che le aveva fatto: "non moriremo mai noi due". E l'altra promessa, quella di lasciarla partire, un giorno, per consegnare quel libro di cui non si sapeva nulla, se non che terminava con la parola America, e che nessuno aveva mai letto.
Il signor Rail e la signora Rail, e il loro amore, strano, ma semplice, infedele, ma sincero.

La signora Rail, con la sua bocca, "che non ti lasciava in pace, ti trapanava la fantasia semplicemente, ti impiastricciava i pensieri".

Il signor Rail ed Elisabeth, la Locomotiva, quella locomotiva dalla quale aveva visto il mondo come mai prima, ora condannata a vivere su qualche metro di rotaia, ferma in un prato, lei, che doveva correre per miglia.

Il signor Rail e Mormy, il suo bastardo. Il suo bellissimo bastardo mulatto.

Mormy e il suo strano modo di vivere la vita. Il mondo attorno andava, mentre lui se ne rimaneva paralizzato da uno stupore lancinante, racchiuso in istanti che duravano minuti. Non aveva difese contro la meraviglia.

Il signor Rail e il vecchio Andersson e le sue bolle di vetro.
Ed Hector Horeau, un architetto pazzo e geniale, il suo amore per il vetro, che "protegge senza imprigionare", che ti permette di "avere un tetto e vedere il cielo", dove "si rifugiano i desideri [...] al riparo della paura". Hector Horeau e il Crystal Palace.

E Pekish, direttore della banda e del coro del paese. Pekish e l'umanofono, strano strumento, composto da tante persone, ognuna delle quali emetteva una nota e una sola: la sua personale. Solo lui non l'aveva. La sua, di nota, l'aveva soltanto sfiorato, una volta, in una notte di pioggia. La sua nota s'era persa, irrimediabilmente, in mezzo a tutte le altre.

E Pehnt, un trovatello con il suo quadernetto, su cui annotava tutto quello che imparava, una cosa per ogni giorno. Pehnt e il suo appuntamento con il destino: quando la giacca del padre gli sarebbe andata bene sarebbe dovuto partire per la città.

E vedova Abegg e suo marito, sposato nonostante gli avesse parlato solo per lettera. Suo marito, che era morto in guerra.

E tutti gli altri. Tante storie, una sola storia.
Una sola storia che narra i sogni di personaggi immaginati da una donna che insegue il proprio castello in aria. Un castello di fantasie nate dalla rabbia. Un castello di rabbia.


Un romanzo su cui ogni commento è superfluo, una raccolta di poesia in prosa.
Uno stile che sembra solo lento, con parole usate come giocattoli, parole che si ricorrono e si uniscono anche per suono, a creare musiche strane, con ripetizioni, cambi di punti di vista, e altri trucchi che incollano, inesorabilmente, alla pagina.

Un libro da leggere ad alta voce, come una favola moderna, in bilico tra filosofia e narrativa, tra rabbia e desiderio, riscatto e rassegnazione.
Un libro per chi ha imparato a sognare, e non smetterà.


Alessandro Baricco
Castelli di Rabbia
Bur - La Scala