mercoledì 1 dicembre 2010


Capitolo Trecentocinquantaquattresimo. Così fu quell'amore dal mancato finale


Credo fosse il 2002 o giù di lì. C'era già stata Genova e Carlo Giuliani era già passato al mondo dei più, ma se ne parlava ancora, segno che di anni non ne erano passati molti.

Con la mia ristretta cerchia di amici, F ed L., si era partiti per le vacanze.
Noi allora le chiamavamo vacanze, ma con il senno di poi -e con la visione di "Amici Miei", avremmo imparato a definirle zingarate, come il buon Monicelli, buon'anima anche lui, ci avrebbe insegnato.

Quell'anno, che abbiamo detto era il 2002 o giù di lì, si finì sul levante ligure, in un campeggio abusivo dove si trovava di tutto, dai reduci del G8 ai figli della luna, dagli eroinomani ai ragazzi in vena di zingarate.
Inutile descrivervi l'aria che attraversava il campo: libertà e sudore i sapori più forti, ma c'erano anche mille altre sfumature che non fanno parte di questo racconto e forse non ne faranno di alcun altro.

Noi legammo subito con uno dei due gruppi più numerosi -e più organizzati, e nelle settimane che passammo tra la sabbia e gli ulivi diverse persone si aggiunsero e diverse ne partirono.

Con una queste fugaci comparse iniziò una storia.
Fu la questione di un attimo: mi prese per mano e mi portò via. Poi mi chiese scusa ed io sorrisi, credo.

Dormimmo ogni notte sulla spiaggia, arrotolati nello stesso sacco a pelo e riparati a fatica da una grossa pietra.
È assurdo il numero di piccoli particolari che si possano ricordare: la forma della sua collana, la tristezza della sua storia, la forza delle sue braccia.

Non c'era amore e non ci sarebbe mai stato in quei giorni che potevano finire in ogni momento. Non importava: non ci saremmo mai più rivisti, ma era la vita. Ne eravamo e ne saremmo stati per sempre consapevoli.
Era solo una storia dolce di cui ignoravamo le date ed in cui ci scambiavamo il massimo possibile.

Intanto la vita del campo scorreva con le sue genti e le sue attività.
Ogni sera qualcuno del gruppo saliva al paese per procurare qualcosa, cibo soprattutto.

Il paese era arroccato su aspro promontorio ad un centinaio di metri sul mare. Per raggiungerlo bisognava percorrere uno stretto sentiero, a tratti a strapiombo, dove l'agave la faceva da padrone e da dove si catturavano scorci che toglievano il fiato.

Noi, figli di due montagne diverse, eravamo i più veloci ed i più allenati. Inutile dire che salì quei giorni.

In una di quelle occasioni comprammo un pandolce. Era solo per me, lo volevo, ma fu comprato con i soldi di tutti. Chiesi scusa io e lui sorrise.

Andammo a mangiarlo sulla terrazza panoramica. Non che patissimo la fame, ma poter mangiare quel dolce fu un piacere senza fine. Lo sento ancora oggi, dopo tutti questi anni: la vista del tramonto, lui, il sapore dei canditi e dell'uvetta -soprattutto dell'uvetta!

Quel tardo pomeriggio sulla terrazza eravamo in tre: noi due ed una signora inglese, anziana. Ci disse che eravamo "belli", ci parlò di gioventù, di amore, di vite intere passate insieme. Ci scattò una foto, a noi che eravamo "così innamorati".

Chiedemmo scusa entrambi ed entrambi sorridemmo.